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Studi di settore tocca al contribuente dimostrare di aver ragione

Studi di settore tocca al contribuente dimostrare di aver ragione

Tra i paesi occidentali, l’Italia è forse l’unico in cui il contribuente è il risultato di un incrocio tra una vacca da mungere ed uno schiavo negro degli ex “cotonifici dell’Alabama”.


Eccovi la riprova, fresca fresca. Come ha scritto il mio amico Paolo Cardenà, un’ordinanza del 13 febbraio scorso della Corte di Cassazione stabilisce quanto segue: “Gli studi di settore rappresentano ‘supporti’ paragonabili ai ‘bollettini di quotazioni di mercato o ai notiziari Istat, nei quali è possibile reperire dati medi presuntivamente esatti’. Pertanto, i dati presunti possono essere utilizzati dall’Ufficio ancorché in contrasto con quelli desumibili dalle scritture contabili regolarmente tenute, salva prova contraria il cui onere grava sul contribuente”. Non solo l’odioso studio di settore – nonostante gli annunci – non è scomparso, ma è diventato pure una specie tavola della legge.
Nell’Italia plasmata a misura di re Giorgio, dove l’evasione fiscale – nell’isteria collettiva – è sinonimo di bieca stregoneria, dove giudici in pensione vorrebbero in galera chiunque critichi le gabelle, dove le Fiamme Gialle e gli Equitalioti fanno leva sull’immorale clausola del “solve et repete” (paga e taci e dimostrami tu di non essere colpevole) per mettere spalle al muro intere categorie di produttori e lavoratori (finanche uccidendoli), ci mancava l’inutile Corte dei Conti, capace – da sempre – di fare una sola cosa: denunciare lo spreco dei “servitori dello Stato” solo quando lo scempio si è compiuto e il cittadino ha profumatamente pagato. Chiudono le stalle quando i buoi sono scappati insomma

Chi conosce il meccanismo del “sostituto d’imposta, ad esempio, sa che i datori di lavoro versano i contributi per i loro dipendenti (è un reato non farlo, come ben sa il coraggioso Giorgio Fidenato). Pochi sanno, però, che Lo Stato, proprio in questo campo, è il primo evasore fiscale in circolazione. Come ha scritto Antonio Giangrande su Oggi, “l’Ipdap non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell’Inpdap che poi è stato scaricato sull’Inps con un’operazione di fusione alquanto discutibile”.

Discutibile? No, criminale! E poi ci si meraviglia ancora del fatto che qualcuno sostenga che è meglio aver a che fare con la Camorra che con la Repubblica italiana.

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